“Viviamo normalmente senza "tempi morti" e ora, per "ammazzare il tempo", lo scopriamo rinascere con-fini diversi”
(Cit.)
La pandemia da Coronavirus sta costringendo l’umanità a vivere in quarantena. Questa definisce un tempo sospeso, una bolla, un “qui e ora” mai vissuto in precedenza.
Non a caso ho scelto il verbo “costringere”, perché la connotazione che diamo naturalmente a questo termine è negativa, porta con sé il concetto di limitazione, di divieto, di obbligo, di ciò che si può e non si può fare, di ciò che si deve e non si deve fare. Ma nel momento in cui si limita e si delimita mettendo un confine, non solo c’è divieto, ma anche protezione. E infatti lo scopo della clausura forzata è proprio proteggere l’umanità da un virus tanto invisibile quanto pericoloso, e affinché la protezione sia efficace occorre che tutti rispettiamo la costrizione imposta. Da qui lo sviluppo di un senso di appartenenza e di condivisione.
Per meglio comprendere questi concetti ci viene in aiuto l’etimologia della parola “confine”: deriva dal latino “cum” (con) e “finis” (la fine, ma anche il fine nel senso di scopo). Dunque, il confine è letteralmente il luogo dove si finisce insieme, la soglia dove c’è l’incontro con l’altro.
Ecco, nel momento in cui siamo “confinati” in casa (#iorestoacasa) come in questo periodo di quarantena, l’incontro con gli altri può avvenire sulla soglia, non oltre: sulla soglia di casa si lascia la spesa agli anziani, sulla soglia si incontra, mantenendo un metro di distanza, il corriere che recapita beni di prima necessità, sulla soglia dell’ingresso del supermercato si attende il proprio turno per entrare. E questi nuovi comportamenti definiscono nuovi limiti, è vero. Ma sulla soglia si fanno anche nuovi incontri, come è avvenuto nelle prime settimane di quarantena, quando ci si affacciava alla finestra o si usciva sui balconi per condividere canti e applausi: nuovi brevi momenti di condivisione con persone anche mai viste prima poiché il via vai della normale quotidianità apriva e chiudeva finestre e balconi non sincronicamente, così da non sapere chi vivesse dietro la porta del vicino di casa. Come dice A. Langer “superare i confini, non cancellarli, vuol dire sapere che siamo tutti troppo grandi e insieme troppo piccoli per privarci di punti di incontro, di soglie dove ci si possa guardare di fronte. Anzi, negli occhi”.
Ma il discorso si complica quando si tratta di mantenere la distanza dalle persone care. In questo caso i confini diventano limiti (limitazioni agli spostamenti e distanziamento sociale) e per gestire la distanza dagli affetti bisogna trovare soluzioni alternative. La tecnologia in questo ci viene in aiuto: chiamate, messaggi, videochiamate supportano il nostro bisogno di vicinanza nei confronti di coloro a cui vogliamo bene. Resta ovvio che il contatto fisico non è recuperabile con tali modalità e fare a meno di esso significa rinunciare ad una grande porzione della comunicazione affettiva. Ma l’espressione di affetto a distanza è comunque possibile, trasformando la dolcezza del contatto fisico in attenzione e considerazione. Ecco che si può pensare ad una sorta di rivoluzione della tenerezza, che permette, se non di compensare la mancanza di contatto, di trovare forme comunicative maggiormente fondate sulla gentilezza.
Questo per la dimensione sociale, poi il concetto di confine riguarda anche l’interiorità soggettiva: vivere un periodo di clausura forzata mette di fronte ognuno di noi ai propri limiti e quindi ai propri confini, rigidi o flessibili che siano. Molti di noi soffrono il restare a casa: spazi piccoli, convivenza stretta, perdita o riduzione dell’attività lavorativa, distanza sociale, possono essere aspetti che limitano così tanto da far emergere disagi relazionali, emotivi ed economici anche seri. Altri scoprono, invece, aspetti di sé resilienti e confini flessibili che aiutano ad affrontare e a gestire questo nuovo spazio temporale: tempi dilatati, buona alternanza tra impegni professionali che è possibile mantenere pur restando a casa e attività piacevoli, condivisione con i familiari stretti di atti quotidiani per i quali solitamente manca il tempo, piccole azioni routinarie di cui l’assenza di fretta permette di scoprire aspetti piacevoli e utili. Come dice M. Serra “mentre si lustra e si riordina si fa l’inventario, abbastanza impressionante, delle cose inutili che ogni casa ha immagazzinato, in quantità inverosimile. Siamo costretti a ripensare cosa ci serve molto e cosa meno, costretti a sfoltire i ranghi delle necessità, costretti a riflettere su quanto ci è preziosa la vita, costretti a fermarci eppure costretti, nella sosta, a lavorare (nel senso di fare) più di prima”. E ciò diventa una sorta di “manutenzione dell’interiorità” individuale: una specie di lavoro manuale (il dedicarci alla casa ne fa parte) che ci fa scoprire che “il nostro benessere dipende da un ritrovato equilibrio tra il corpo in movimento e la mente che lo governa” e così riscopriamo che “anche noi siamo un attrezzo, come la scopa e come lo smartphone”. In questa quarantena è quindi in corso “una restituzione di tempo, un bonus non governativo molto provvido e spalmato con equità”.
Per concludere, non è questa una lode al necessario e una condanna asfittica e anacronistica al superfluo. Spesso necessario e superfluo si delimitano e si toccano a vicenda assumendo entrambi ora i contorni dell’uno, ora dell’altro. E poi la vita che conduciamo nella normalità s’intreccia a tal punto con le cose che possediamo e col tempo del loro utilizzo, che è difficile dire cosa serva e cosa non serva affatto. Serve tutto, ma è quantomai necessario, e quest’esperienza ce lo insegna, avere consapevolezza del proprio senso di sé, della propria identità, per non soccombere di fronte al vuoto e alle privazioni di questo quotidiano rispetto alle abitudini della normale quotidianità.
Dott.ssa Irina Boscagli
Psicologa Psicoterapeuta a Firenze
Psicologa Psicoterapeuta a Firenze
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